Quello dello spiedo bresciano è un esempio illuminante di come i regolamenti comunitari possano cambiare la natura del cibo ma, se seguiti in modo lucido, non tolgano agli appassionati il piacere di consumarlo.
Premessa: per i bresciani (carnivori), lo spiedo rappresenta l’eccellenza: un mix di pezzi di carne, infilato sullo ‘spadone’ (‘bracol’ in dialetto), e cotto lentamente alla brace: un tempo rigorosamente quella di legna dei camini – o carbone vegetale al massimo – mentre oggi stanno prendendo piede le macchine elettriche, utilizzabili anche a casa e con prezzi da 300 euro a salire. So che è una mezza eresia per chi si rifà alle regole della De.Co. sullo spiedo (i comuni di Serle e Gussago) ma il sistema toglie il fumo e rende il cibo più leggero. Perché è un simbolo di Brescia? Per il numero altissimo di cacciatori– in particolare in Val Sabbia, tempio assoluto – e perché, prima che diventasse il piatto della domenica (soprattutto nelle zone turistiche), rappresentava il modo migliore per gustare gli uccelli da cacciagione. Da tre anni, l’ingrediente principe non si può più utilizzare per la decisione dell’Unione Europea: dopo la sollevazione popolare al momento, si continua a chiedere deroghe su deroghe ma penso che non si tornerà più indietro, almeno per chi è ristoratore visto che le multe per chi li serve ancora sono salatissime.
Inutile discutere su leggi e specie protette, è così e basta: li preparavo e gustavo anch'io ma oggi lo spiedo è diverso, ugualmente buono. Ogni ristorante e casa ha una sua ricetta: la mia prevede coppa di maiale, costine, pollo anche se c’è chi mette il coniglio o persino la selvaggina. La carne si taglia a prese da 70-80 gr l’una che si montano sul ‘bracol’, alternandoli con salvia e fette di patata, alte un cm. A questo punto inizia la cottura, su un girarrosto che un tempo costringeva la cuoca a una rotazione manuale mentre ora ci pensa l’elettricità. In ogni caso, durante la cottura che va da 4 a 6 ore, ci vuole una persona che dia sempre un’occchiata e soprattutto si occupi a intervalli regolari dell’unzione con il burro. E’ il solo sistema per mantenere la carne morbida, evitandone la bruciatura. Il burro passato in parte ricade sul fondo del girarrosto in una terrina per poi essere riciclato per tutta la durata della cottura.
La ricetta tradizionale richiede un’unica salatura dopo un’ora mentre 15 minuti prima del termine -ma l’assaggio è fondamentale - bisogna fermare il passaggio del burro, ravvivando altresì la brace in modo da ottenere la superficie croccante per le carni e far asciugare il burro ancora presente sulla superficie. Lo spiedo è cotto bene quando il burro residuo sulla superficie della carne forma la caratteristica ‘schiumetta’. Il colore deve essere marrone-rossastro molto carico, con la superficie della carne brillante. E nei pezzi si deve sentire il croccante esterno e l’interno morbido ma assolutamente non unto. Tolte dagli spadoni, le prese sono versate in grosse pirofile di ceramica o, meglio, di acciaio così da non raffreddarsi: lo spiedo va servito in tavola rigorosamente caldo. La polenta è obbligatoria, anche per il piacere di condirla con il burro della famosa terrina…
Molti amano precedere lo spiedo con una fetta di salame e la ‘minestra sporca’ (con pezzettini di pollo e rigaglie di gallina, in un brodo di carne). Io vi regalo tre piccoli consigli. La salvia: non è tutta uguale, per me la migliore è quella in foglie molto piccole con un profumo vicino all'eucalipto. Il burro: l’ideale è quello di malga, in caso contrario meglio un chiarificato di livello di quelli normali che sono pieni di acqua. La carne: la tradizione vuole che si lasci lo spiedo già montato per la notte precedente in modo che il sangue goccioli ma io preferisco lavarlo con l’acqua prima di iniziare la cottura. Quanto al vino, vero che un Valtènesi Rosso ‘fa territorio’, ma lo spiedo è ottimo con un grande Lambrusco, un Barbaresco, un Valpolicella. E un Franciacorta ci sta benissimo.
GIANNI BRIARAVA
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